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Francesca Porcellato: “Partecipare alle Paralimpiadi? Un sogno che si avvera”

Nata nel 1970 a Castelfranco Veneto, paraplegica dall'età di 18 mesi, ha vinto moltissime medaglie in campionati italiani, europei e olimpionici, prima con la squadra di atletica leggera e poi con lo sci di fondo. Il suo prossimo obiettivo? Sochi 2014, dal 7 al 16 marzo

Un amore forte per lo sport in ogni sua declinazione. Un’attrazione che nasce dalla passione per il movimento in tutte le sue forme. Questo sogno, molto chiaro fin dall’infanzia, ha portato Francesca Porcellato, nata nel 1970 a Castelfranco Veneto (Tv), paraplegica dall’età di 18 mesi, a vincere moltissime medaglie in campionati italiani, europei e olimpionici, prima con la squadra di atletica leggera e poi con lo sci di fondo. Il prossimo obiettivo per lei sono i Giochi Paralimpici di Sochi 2014, dal 7 al 16 marzo nel centro invernale russo, dove gareggerà nello sci di fondo.

All’attivo Francesca ha otto edizioni delle Paralimpiadi (6 estive, 2 invernali), in cui ha vinto 11 medaglie, di cui 3 d’oro, 3 d’argento e 5 di bronzo, conquistate in tutte le discipline dell’atletica leggera, l’ultimo oro nello sci di fondo nel km sprint a Vancouver 2010. Nel 2008 ai Giochi Paralimpici di Pechino è stata la portabandiera ufficiale della squadra italiana. Ai campionati del mondo (nella specialità corsa 100m, 200m, 800m) ha collezionato 9 medaglie di cui 4 d’oro, mentre non si contano i titoli nazionali ed europei.

Com’è iniziata la tua carriera da atleta?

Da sempre ho una forte attrazione per il movimento in generale, amo lo sport. Ho nel Dna la competizione, mi piace avere l’avversario di fianco, studiarlo, le gare mi danno adrenalina. Ho iniziato con l’atletica leggera a 17 anni, poi, dopo le Paralimpiadi invernali di Torino del 2006, mi sono avvicinata allo sci, e da qualche tempo per allenarmi ho iniziato con l’handbike. Il mio compagno per scherzare mi dice che è meglio che non provi nient’altro altrimenti inizio a fare gare anche in quella disciplina!

Quali sono state le prime tappe del percorso che ti ha fatto diventare un’atleta professionista?

La mia passione per lo sport è nata quando ero ancora una bimba. Volevo correre e volevo farlo veloce, era questa la cosa più importante, con la sedia a rotelle o senza. A 17 anni ho conosciuto una società sportiva che faceva sport anche per le persone disabili e quindi ho iniziato il mio percorso. Non è mai stato semplice, non lo è adesso e non lo era a maggior ragione 27 anni fa: la disabilità veniva vista come un tabù, chi si avvicinava allo sport in sedia a rotelle veniva guardata con diffidenza, era difficile farsi strada. Molte porte erano chiuse, altre le ho aperte, altre ancora le ho trovate aperte.

Coniugare scuola e allenamenti, quanta fatica ha comportato? Quali difficoltà hai incontrato e incontri ogni giorno, come persona disabile e come atleta?

Andare a scuola e poi allenarsi il pomeriggio non è stato facile, ma quando gli obiettivi sono alti si stringono i denti e si va avanti. Le difficoltà quotidiane, quelle che si incontrano anche adesso, sono sempre le stesse: fisicamente le barriere architettoniche, nelle relazioni con gli altri invece le persone che hanno pregiudizi nei confronti dei disabili. Come atleta invece ci sono le difficoltà legate al risultato: chi fa sport non ha la certezza matematica che il lavoro eseguito porti a certi risultati, sono molti i fattori che influiscono nella resa in gara, quindi la vittoria dopo un lungo e duro allenamento non è un’equazione matematica. Ci sono poi difficoltà nel reperire le attrezzature adeguate e nel trovare i posti giusti dove allenarsi. La fatica, ma anche la sfida di ogni giorno, è coordinare, mettere insieme tutti gli aspetti della vita, coniugando allenamenti e vita personale.

Vita e carriera sportiva, come convivono?

La carriera sportiva è iniziata presto e la mia vita si è adeguata a questa passione. Quando ho iniziato a lavorare nel mio Comune di residenza all’ufficio anagrafe ho cercato di conciliare le due cose, ma non è stato facile, a un certo punto ho deciso di dedicarmi solo allo sport. Ora i miei impegni ruotano intorno a questo e il mio compagno mi capisce, viene anche lui dal mondo dello sport, e mi sostiene.

Lasciare il lavoro è stata una decisione difficile?

È stata una decisione molto pensata perché un’atleta spende molto e guadagna pochissimo, ma io amo la vita e credo che vada vissuta appieno, non ci devono essere strade desiderate e non provate, altrimenti se non si percorrono diventano macigni. Con il mio compagno abbiamo pensato di buttarci: inizialmente ho preso sei mesi di aspettativa e poi ho lasciato il lavoro, ero molto più felice facendo sport a tempo pieno. È stata la scelta più azzeccata della mia vita, un vestito in meno ma un sorriso in più!

Come si può definire in poche parole la vita di uno sportivo, e di uno sportivo donna?

La vita di uno sportivo è molto particolare: allenamento, massimo carico, massima stanchezza, tensioni, viaggi e valige sempre in mano. Se la persona che ti è a fianco non capisce questo ritmo, è dura. È difficile conciliare la vita di donna con la vita di sportiva, ma siamo caparbie, ci mettiamo in testa di fare cento cose, riusciamo a farne novantanove, o a volte centodieci: è il fattore donna!

Come hai vissuto il periodo in cui gareggiavi sia nell’atletica leggera che nello sci? La preparazione è diversa?

Ho lavorato molto, la preparazione atletica per le due discipline è la stessa ma con lo sci ho dovuto reimparare tutto. Questo mi ha dato però uno stimolo fortissimo, una nuova benzina che mi ha dato la carica per raggiungere nuovi obiettivi. Passare dall’atletica leggera allo sci è stato come passare dall’università all’asilo nido. Ad un certo punto ho capito che dovevo mollare una delle due, ho lasciato la vecchia disciplina per lo sci che mi dava stimoli maggiori.

Il momento più bello della tua storia di atleta?

Il momento più emozionante, l’apoteosi, è stato proprio vincere nello sci la medaglia d’oro di Vancouver. Al di là del risultato importantissimo è stata anche una vittoria personale dopo aver affrontato l’ignoto ed essermi rimessa in gioco, ripartendo da zero.

Quali sono state le tappe nel percorso di formazione della propria identità come disabile, come donna, come atleta?

Diciamo che donna e disabile sono due elementi inscindibili della mia persona, quindi la presa di coscienza di questi due aspetti è stata contemporanea. Ho capito chi ero fin da bambina, quali erano le mie caratteristiche, quali i miei limiti e soprattutto cosa volevo. Quando riesci a dare delle risposte a queste domande basilari poi il percorso che inizi ha una linea precisa da seguire. Il mio sogno era fare sport, muovermi, andare veloce, era ed è un obiettivo così forte che mi sono sempre concentrata su questo, impegnandomi, osando, provando. Non mi sono soffermata subito sull’obiettivo principale, ho coltivato tutto quello che avevo intorno, la scuola, lo studio, il lavoro, ma poi la strada dell’atleta si è delineata con nettezza come la principale. Certo, ho avuto molta fortuna ad avere un sogno così chiaro, perché mi ha fatto superare tanti ostacoli e problemi: se non sai dove andare e non sai cosa vuoi brancoli nel buio e perdi determinazione.