
Nella commedia Loro chi? si diceva che un trenta-quarantenne nell’Italia di oggi ha già cambiato almeno tre o quattro mestieri, abbassando via via l’asticella delle proprie aspettative, che è come dire livellando i propri sogni. Non sempre è così. Giorgia Capoccia ha 35 anni, è laureata in Storia e critica del cinema al Dams di Roma e ha conseguito un master in Multimedia Content Design a Firenze, ha iniziato come giornalista e proseguito come grafica televisiva. A un certo punto non le è bastato più e ha deciso di dare spazio ai propri sogni. Oggi, in parallelo al suo lavoro di grafica, principalmente per la Rai, ha creato una piccola attività di produzione, la SmåtSmåt (“che in danese vuol dire ‘piccolo piccolo’, e che è anche il titolo di un disco di Stefano Bollani”), che progetta e realizza gioielli con la stampante 3D e confeziona abiti e accessori su misura (“e su richiesta”) utilizzando tessuti africani.
Come è nata l’idea di SmåtSmåt?
Ho sempre avuto un interesse per la moda, e quando mi sono imbattuta nella stampa a 3D ho cominciato a pensare, disegnare e poi progettare insieme al mio compagno, Nicola Pratali, una prima piccola linea di accessori e gioielli realizzati in nylon. Noi ci occupiamo della parte progettuale, e ne affidiamo la realizzazione, che richiede un tipo di stampa complesso, al primo service di questo tipo facilmente accessibile al pubblico, Shapeways, che è olandese.
Che tipo di gioielli e accessori producete?
Oggetti divertenti, surreali, un po’ eccessivi: il primo anello che abbiamo progettato era un cervo, poi c’è stato il gatto arrabbiato, poi il diamante oversize. Cerchiamo di sfruttare il materiale plastico dai colori accesi per darne una lettura pop lavorando sui volumi, sulle proporzioni esagerate. I primi oggetti che realizzavo si rifacevano a miei ricordi personali: ad esempio l’anello a rondine mi ricorda un libro che leggevo da ragazzina e che raccontava il ciclo della vita delle rondini attraverso le stagioni.
Come è passata dai gioielli agli abiti?
Nella mia famiglia ci sono generazioni di sarte professioniste, dalla bisnonna alla nonna materna, che avevano un laboratorio di sartoria a Cerveteri, alla sorella maggiore di mia mamma, che lavorava per un atelier di alta moda. Per me era normale vedere la nonna cucire o essere circondata in casa dai tessuti che portava la zia, ma non avevo mai visto la loro attività come qualcosa in cui mi sarei potuta impegnare personalmente. Poi, a 33 anni, sono entrata in una profonda crisi personale. Non riuscivo più ad essere contenta di quello che facevo per 8, 10, anche 12 ore al giorno, e questo mi creava problemi non solo a livello lavorativo ma proprio a livello esistenziale. Ho capito che dovevo fare qualcosa, avevo un’enorme energia che andava in qualche modo canalizzata, e rifocalizzata.
Così ha pensato di tornare al mestiere di famiglia.
L’ho visto prima di tutto come qualcosa che poteva farmi bene a livello mentale, perché sentivo il bisogno di fare qualcosa con le mani, trasferendo in un’azione concreta tutta l’energia che mi tenevo addosso. Ho conosciuto Valentina, una delle socie di Fabric Factory, una sartoria teatrale che organizzava corsi di cucito e sono andata da lei per qualche mese a rifare un po’ di ordine fra le conoscenze che avevo in qualche modo assorbito in casa. Così è nata l’attività di microsartoria con cui realizzo pezzi unici su richiesta, soprattutto da donna ma anche da uomo. Dietro c’è l’idea che il tessuto prenda vita e forma nel momento in cui la persona desidera quell’oggetto, che poi viene realizzato apposta per te.
Dunque dietro c’è una ricerca identitaria.
E una forma di espressione, anche per me. Ho cominciato a progettare e a realizzare questi capi per indossarli io stessa, e mi sono accorta che era un modo per esprimere una parte di me che avevo sempre tenuto a freno, quella che pensava che le cose le potessero fare solo gli altri. Ma anche per chi acquista i capi creati dalla mia piccola attività handmade ogni pezzo assume un valore: l’hai scelto, è nato per te, ti rappresenta, è un modo di vederti e raccontarti. Anche il fatto che i capi siano realizzati con tessuti africani è importante: i pattern sono affascinanti non solo a livello estetico ma anche perché hanno un contenuto fortemente simbolico.
Il background tecnologico l’ha aiutata?
È stato proprio il lavoro di grafica televisiva a farmi venire a conoscenza di determinati usi del 3D. Ma ha avuto grande importanza anche la mia formazione umanistica, perché gli oggetti che realizzo in 3D non sono sempre perfetti da un punto di vista progettuale, non avendo io studi specifici di design alle spalle, però proprio per questo il mio approccio è più giocoso, più personale.
Quali sono i suoi canali di vendita?
Mi appoggio a due piattaforme online straniere che operano in Italia, una tedesca, DaWanda, l’altra francese, A Little Market. A fine gennaio sarà online anche il mio sito SmåtSmåt, nel frattempo sono contattabile tramite Facebook e Instagram.
Il prossimo passo?
Stiamo cercando di riavvicinare i gioielli e gli accessori in 3D all’abbigliamento sviluppando modelli legati ai pattern africani, per cercare di rendere il tutto più coerente. E sto progettando di disegnare io stessa nuove stoffe: negli Stati Uniti e in Inghilterra esistono già da tempo servizi di stampa professionale su tessuto a prezzi accettabili e soprattutto molto semplici nell’utilizzo, dei veri e propri portali dove carichi i tuoi disegni e ti vengono stampati. Lo scorso Natale ho disegnato il mio primo tessuto grazie ai ragazzi di Co-Hive per realizzare un kit do-it-yourself natalizio e da poco anche in Italia è nata The Color Soup, una piattaforma molto giovane che svolge un servizio di stampa professionale su tessuto: sono molto curiosa di provare!
Che ruolo ha il suo compagno nell’impresa?
Mi dà una grossa mano sulla realizzazione in 3D: ragioniamo insieme sulla linea generale, poi alla modellazione più dettagliata pensa lui. Curiosamente abbiamo background molto simili, anche lui si occupa principalmente di postproduzione video.
Che cosa le ha dato più soddisfazione?
SmåtSmåt mi ha rimesso in pace con la femminilità. Sono cresciuta in mezzo ai maschi, ho sempre avuto più amicizie maschili che femminili, nello sport ero sempre l’unica ragazza in mezzo a tanti i maschi, e sono rimasta l’unica donna in una società di postproduzione dove lavorano tutti uomini. Attraverso SmåtSmåt ho riscoperto un modo di intendere il femminile molto più vicino a come sono fatta io e sono entrata in contatto con una dimensione fuori dagli stereotipi. Recuperare certi saperi con un approccio meno tradizionale, conoscere storie di donne che portano avanti delle piccole realtà produttive mi ha riconciliato con il fatto di essere donna, e mi ha aiutato a trovare un ruolo nel mondo. SmåtSmåt mi ha anche dato l’occasione di conoscere belle realtà che supportano l’autoproduzione e aiutano quelli come me e Nicola a crescere: penso a Famo Cose, il primo makerspace romano. È come se avessi scoperto di essere meno sola, e ho recuperato una grande serenità anche nella mia attività principale, una nuova prospettiva attraverso la quale guardare le cose.
Che cosa ha scoperto attraverso questo nuovo sguardo?
Che le persone hanno dentro molte più cose di quanto loro stesse immaginino. E non è detto che si debba dirle a voce o metterle per iscritto: ci si può esprimere anche creando un anello o un vestito.
