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Alessia Arcangeli: con lo scafandro a curare i malati di ebola

L'infermiera è appena tornata dalla Liberia dove l'epidemia è ai massimi livelli. “L'ebola è un nemico che ti può cogliere alle spalle, non sai da dove arriva e devi stare sempre in guardia”, racconta. E al ritorno in Italia, c'è chi la evita per paura di essere contagiato

Alessia Arcangeli è tornata venti giorni fa da Monrovia, in Liberia, dove ha lavorato per quattro settimane come infermiera di Medici Senza Frontiere. Nel loro presidio sanitario vengono assistiti i malati di ebola, fino a 120 posti letto, al suo arrivo tutti occupati.

Alessia ha 38 anni e un passato da studentessa di chimica farmaceutica interrotto alla soglia della tesi per passare a scienze infermieristiche. Nel 2011 fa la prima esperienza come infermiera volontaria in Guatemala e decide di presentare il suo curriculum a Medici Senza Frontiere. Con loro partirà, come prima missione, proprio in Liberia, poi resterà per 9 mesi in India. Monrovia è la sua terza esperienza all’estero.

“L’ebola è un nemico che ti può cogliere alle spalle, non sai da dove arriva e devi stare sempre in guardia”, racconta Alessia Arcangeli, che parla della Liberia come di uno degli scenari più tragici di questa epidemia mortale. “Il rischio di contagio dentro le tende del centro sanitario di Medici Senza Frontiere in Liberia è altissimo, 120 posti letto tutti pieni, con moltissime persone in uno stato molto avanzato di malattia e poco tempo per prestar loro le necessarie cure: la tuta gialla, lo ‘scafandro’ e la maschera, sotto le tende, fanno arrivare la temperatura a 37/40° e non è consentito rimanervi per più di un’ora: oltre si rischia di non connettere più”.

Alessia ci racconta la sua recente esperienza con grande passione, sa di essere testimone di una delle più gravi catastrofi umanitarie della nostra epoca e non si risparmia nel raccontare e nel rivivere quei giorni molto difficili e diversi. Diversi dalle altre missioni, prima fra tutte proprio la stessa Liberia, dove ha vissuto tre mesi in un campo profughi che accoglieva la popolazione ivoriana esule dopo un colpo di stato nel proprio Paese. “Lì lavoravamo moltissimo, lo staff era composto da persone del luogo, bravissimi, che mi hanno insegnato tanto. Si lavorava sempre senza risparmiarsi per molte ore al giorno, poi la sera si usciva insieme e si andava a ballare. Ho vissuto veramente insieme ai liberiani”.

Monrovia invece è stata un’esperienza opposta sotto diversi punti di vista: “Per motivi di sicurezza abbiamo vissuto tra presidio sanitario e albergo senza incontrare nessuno, lo staff con cui lavoravo erano le uniche persone del posto che incontravo”. Persone care perché, una volta arrivata lì, Alessia scopre di aver già incontrato quasi tutti i colleghi nella sua prima missione.

Con l’ebola, ci racconta l’infermiera “devi cambiare la prospettiva: la prima cosa importante sei tu, devi stare sempre attenta, no alla stanchezza che potrebbe giocare scherzi letali”. Prestare cure, aiutare i malati passa quindi prima di tutto per un controllo molto severo su sé stessi, in modo da poter continuare ad essere un aiuto valido. La vestizione delle tute gialle viene fatta tutti insieme, a coppie, un compagno controlla l’altro perché sbagliare può voler dire morire. Dieci minuti per la preparazione, anche un quarto d’ora per svestirsi. “E non puoi toccare nulla, la parte esterna delle tute è contaminata, per togliere la parte sotto si devono usare i piedi, infilati in stivali di gomma molto rigidi. All’inizio non ci riuscivo e saltellavo su e giù, la chiamavamo la ‘danza dell’ebola’”.

Alessia arriva a Monrovia al culmine del contagio: molti i malati gravi, moltissimi i decessi. “Ho visto morire molte persone anche se entravo nella zona di massima allerta al massimo due volte al giorno, perché entrare più spesso non era consentito. Il resto del tempo è stato occupato interamente dal lavoro di formazione. Trovavo già persone morte accanto con gli altri ancora vivi, spesso parenti o dello stesso paese. La cosa più terribile è stata vedere scomparire tanti bambini. In quei giorni ho pensato di essere contenta di non essere madre, credo che non ce l’avrei mai fatta. Invece vedere i piccoli migliorare e in alcuni casi guarire è stata una gioia immensa”.

La lotta contro il tempo di Alessia è stata combattuta prestando soccorso in un contesto in cui il tasso di frustrazione era altissimo: “Fuori dal nostro ospedale la gente veniva con la speranza di essere curata e moriva lì, fuori dal cancello, chiedendo aiuto. Ma più di quello che già stavamo facendo non potevamo proprio fare”. Nel corso delle 4 settimane di permanenza qualcosa però lentamente è cambiato: “Ho imparato ad aggrapparmi a piccolissimi segnali di miglioramento – confida Alessia – ad esempio una maggiore cura igienica, difficile da mantenere davanti ad una malattia che fa perdere molti liquidi”.

Per Alessia, infermiera assunta in un ospedale romano nel reparto di malattie infettive, partire in missione per assistere i malati di ebola è stata una cosa naturale: “Non mi sono mai posta veramente il problema fino a quando non mi è arrivato l’ok per partire dal mio posto di lavoro. Come infermiera, vedere da vicino l’ebola è stato molto formativo, anche se questa volta c’è stata tanta paura di ammalarmi e di morire, che non avevo mai provato prima. In certi contesti però penso che la paura sia un sano campanello di allarme che permette di mantenere alta l’attenzione”.

Alessia è ora in bilico tra continuare a partire di tanto in tanto e il desiderio di fare di queste missioni il suo lavoro, lasciando definitivamente la sua vita a Roma, forse anche per la difficoltà di tornare dopo aver vissuto esperienze così forti. “Può sembrare un paradosso, ma la fatica maggiore non è partire ed adattarsi alla vita difficile della missione: è rientrare. Il primo trauma vero e proprio l’ho provato tornando dall’India, dove sono stata 9 mesi in una foresta, offrendo assistenza sanitaria ad una popolazione indu dell’interno del paese decimata da una sanguinosa guerriglia”. Lì Alessia è entrata nel vivo dell’attività di Medici Senza Frontiere, uno staff internazionale, un’amicizia bellissima e inaspettata con una collega indonesiana: “Abbiamo lavorato insieme per mesi, mi ha insegnato moltissimo, è più giovane di me ma ha una grande esperienza, sia sul campo che accademica”.

Il rientro però è stato un pugno nello stomaco: “Mi sono chiusa, non riuscivo più a raccontare ciò che avevo vissuto perchè non trovavo le parole giuste per esprimerne tutta la potenza. Sono andata in crisi con il mio compagno e con i miei amici. In India mi sentivo viva, ogni giorno c’era un problema, una sfida, tanta fatica ma anche tanta soddisfazione”. Medici Senza Frontiere ha capito il problema: esiste sul territorio una rete di sostegno psicologico per chi rientra dalle missioni e il supervisore di Alessia le è stato molto vicino, non lasciandola mai sola in questo percorso di elaborazione. Difficile è stato anche il rientro da Monrovia: “Mi sono sentita discriminata. Ancora oggi alcune persone, amici ma anche parenti, non mi vogliono vedere. Io sto bene, ma la paura è qualcosa di ancestrale, non è legata al ceto sociale o agli studi. Ma il fatto di sentirmi una minaccia, quello sì mi fa stare davvero male”.