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Le operatrici di Medici per i Diritti Umani, una storia di solidarietà e di amicizia

Giulia Anita Bari, Maria Rita Peca e Roseli Petry lavorano insieme nell'organizzazione umanitaria che tutela, tra gli altri, il diritto alla salute dei rifugiati. Perché il non profit è sempre più spesso declinato al femminile

Un modo diverso di “fare politica”, non declinato nella militanza in un partito, ma nel lavoro di operatrici umanitarie nel non profit, spendendo tutto di sé in un lavoro difficile, complesso e con risultati a volte percepiti ‘piccoli’ rispetto alla forte domanda di chi chiede assistenza, sostegno, empatia. Un desiderio profondo di impegnarsi concretamente nella solidarietà, una ricerca inizialmente confusa che ha portato poi ad un approdo. Per Giulia Anita Bari, Maria Rita Peca e Roseli Petry il ‘porto’ è stato il Medu, Medici per i Diritti Umani, che è diventato lavoro ma anche amicizia, focus di interessi e di passione.

Il Medu è una onlus fondata a Roma nel 2004 e nata per iniziativa di un gruppo di medici, ostetriche ed altri volontari provenienti da un’esperienza associativa e umanitaria con il movimento internazionale di Médecins du Monde. Oggi questa realtà è presente con gruppi associativi ed aderenti, oltre che nella Capitale, anche a Firenze, Torino, Cagliari, Venezia e Trieste. L’obiettivo di Medu è catalizzare l’impegno volontario di medici ed altri operatori professionali per promuovere il diritto alla salute e degli altri diritti umani, operando una costante azione di denuncia delle violazioni in questi settori. Rileva inoltre le minacce alla salute e alla dignità per contribuire alla loro prevenzione, sviluppando nuove pratiche di salute pubblica, fondati sul rispetto della dignità umana e delle diverse culture dei popoli.

Le tre operatrici di Medu, di 30, 32 e 37 anni, sono molto diverse tra loro: Roseli, la più grande, è una biologa brasiliana, sorriso da ragazzina, occhi azzurri vivissimi e lunghi capelli castani, arrivata in Italia per un anno sabbatico e rimasta poi a vivere qui per amore di Medu. Abitava vicino alla stazione Ostiense, dove qualche anno fa un gruppo di afgani, pur essendo rifugiati e richiedenti asilo (quindi con diritto di assistenza e di ingresso in un circuito di protezione statale) viveva in una situazione di povertà assoluta e di estrema precarietà sotto gli occhi di tutti.

A chi chiedeva a Roseli perché ha iniziato ad impegnarsi nel volontariato proprio lì, alla “buca” della stazione Ostiense dove si rifugiavano gli afgani, lei rispondeva: “Perché non farlo?”. Con questo spirito è diventata negli anni responsabile del coordinamento della sede di Roma, abbandonando il suo progetto di tornare in Brasile per recarsi nella foresta Amazzonica, “magari a scoprire nuove forme di fauna”, scherza oggi sorridendo.

Giulia Anita, la più “piccola”, è molto energica: frangetta corta, taglio deciso e un curriculum ricco di esperienze nel settore del non profit, tra cui un periodo ad Action Aid. L’impegno con il Medu è nato dal bisogno di trovare un nuovo modo di fare politica. “In un mondo ormai internazionalizzato – ci racconta – non ci riconosciamo più in un partito, e impegnarsi attraverso un’organizzazione umanitaria è il mio modo di vivere una dimensione per me importantissima”.

Giulia fa la field officer, cioè cura lo sviluppo sul campo dei progetti. L’ultimo, appena concluso, l’ha vista impegnata in una ricognizione dei campi dei rifugiati in transito dai porti di Patrasso e Igoumenitsa su traghetti del vettore turistico. “Il vivere da vicino la realtà dei rifugiati vuol dire anche scardinare dei luoghi comuni: pur nella miseria assoluta – dormivano con i topi in mezzo alla sporcizia – questi ragazzi, appena arrivati in Grecia dopo un viaggio pieno di pericoli e di difficoltà, erano carichi di entusiasmo e di determinazione”.

Nella sede di Medu di Roma “siamo quasi tutte donne – ci racconta ancora Giulia – ma non per scelta: gli incarichi nel corso del tempo sono stati affidati alle candidate che avevano il profilo più appropriato e completo, e così ci troviamo in un gruppo di lavoro il cui unico uomo è il coordinatore, Alberto Barbieri. Questo rispecchia in parte anche la composizione del non profit, ormai declinata quasi totalmente al femminile”.

Per Maria Rita invece il percorso è stato diverso: “Ho studiato Lingue all’università, ho imparato il cinese proprio con il desiderio di conoscere nuove culture, appassionata al muoversi dell’essere umano nel mondo. La mia esperienza come volontaria di Medu è stata bellissima – ricorda Maria Rita, che è coordinatrice dei progetti nazionali della onlus – le personali storie di ‘resistenza’ delle persone hanno il potere, l’ho vissuto con i miei occhi, di scardinare i meccanismi di potere e di oppressione”.

Nel corso del tempo sono arrivate anche le prime delusioni, “che inevitabilmente si incontrano in un tipo di esperienza in cui di fronte a una vittoria sembra ci siano dieci ‘sconfitte’. Per una persona che conosce i propri diritti e che si è fatta un’idea di come uscire dal momento di difficoltà, sai che ce ne sono altre cento che ancora vivono all’oscuro di tutto”. Ma questa maggiore maturità nell’approccio al lavoro ha consentito a Maria Rita di imparare “a non proiettare la speranza in un futuro troppo lontano. Occorre lavorare nell’oggi, agire nel quotidiano, felici dei risultati, anche se apparentemente piccoli”.