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Stefania Gonfloni, la ricercatrice che salva le ovaie dalle cure contro il cancro

Biologa, studia da anni per dare alle donne che subiscono cure invasive la possibilità di avere una vita normale e dei figli. Un cervello che è tornato, ma che, come accade spesso, il nostro paese non fa nulla per trattenere

“Uno non può immaginare quanto sono belle le ovaie viste al microscopio. Gli ovociti in mezzo, le cellule ancelle tutt’intorno, un’organizzazione perfetta in cui tutto, anche le cellule più piccole, ha una funzione e un’importanza vitale”. Se non fosse che sta parlando del suo studio, della scoperta che potrebbe permettere a molte donne sottoposte a chemioterapia di rimanere fertili anche una volta terminate le cure, quella di Stefania Gonfloni, 46 anni, ricercatrice a Tor Vergata dopo un Phd a Trieste ed esperienze di ricerca in Usa e Germania, sembrerebbe una metafora: di come dovrebbe funzionare l’università in Italia, dell’importanza del lavoro d’equipe, dell’interdipendenza tra i diversi comparti della scienza, e di come al contrario le “cure” di Stato – così sono spesso eufemisticamente definiti i tagli alla spesa –  tendano a colpire in maniera indiscriminata anche le parti più sane e vitali del sistema, rischiando di sterilizzare irreversibilmente e definitivamente l’intero settore della ricerca.

Ma l’immagine, ancorché suggestiva, è del tutto involontaria: per Stefania e il suo team di ricercatrici gli ovociti sono ovociti, i follicoli follicoli e l’arcana bellezza del tessuto sezionato è semmai una sineddoche della promessa di vita che vi è contenuta: “Se chiedi a una malata di cancro quale sia il suo desiderio più grande, ti dirà che vuole una vita normale, una gravidanza, dei figli”, spiega Stefania: “Guarire, per molte donne, non basta. Alcune ricorrono a trattamenti costosi e invasivi, ma non tutte se lo possono permettere, e comunque le probabilità di successo sono piuttosto scarse. La nostra ricerca potrebbe in futuro evitare tutti questi dolorosi passaggi”.

Il principio è quello di somministrare alle pazienti sottoposte a chemioterapia un farmaco in grado di proteggere gli ovociti dal cosiddetto effetto “off target” del Cisplatino, un antitumorale che bombarda i tessuti malati ma anche alcune cellule sane, tra cui quelle follicolari, provocando disturbi alle ovaie e rischio di menopausa prematura: “La scommessa è stata quella di provare un farmaco già testato e utilizzato in altre patologie – l’Imatinib – in tutt’altro contesto. Fin da subito abbiamo osservato sui topi che le ovaie “protette” dall’Imitanib non venivano danneggiate e che il livello di fertilità delle cavie rimaneva inalterato anche a distanza di tempo. Dopodiché abbiamo testato il farmaco anche su ovaie coltivate in vitro ottenendo gli stessi risultati. A questo punto si tratterebbe di avviare la sperimentazione medica, ma è il passaggio più difficile, perché, anche se la ricerca è finanziata dall’AIRC, in Italia manca un canale di comunicazione vero e proprio con gli oncologi”.

Converrà a questo punto sottolineare il fatto che Stefania è una biologa, una “ricercatrice di base”, una di quelle passano ore al microscopio in attesa di una luce, di un’intuizione, di un’evidenza che magari non arriverà, ma con la consapevolezza che solo esplorando si può sperare di avanzare nella conoscenza. E converrà anche rimarcare che il suo studio non può prescindere dal ricorso a cavie animali, giusto per prevenire le obiezioni degli immancabili indignados anti-vivisezione: “Per il tipo lavoro che faccio sarebbe impossibile anche solo pensare a esperimenti del genere senza l’uso di cavie. Limitarsi a lavorare con linee cellulari in coltura dà risultati spesso non attendibili e talora fortemente fuorvianti. Bisogna agire su cellule vive, perché la loro risposta è molto più simile a quella delle cellule umane. Senza topolini finiremmo di lavorare domani”.

Senza topolini e anche senza soldi, verrebbe da aggiungere. Perché i brevetti costano e le università italiane non li finanziano, col risultato che magari prima o poi qualcuno negli Stati Uniti o in Cina ti ruba l’idea o addirittura il cervello che l’ha partorita: “Sto lavorando da quasi sei anni a questo progetto, ma avrei dovuto pagarmi il brevetto di tasca mia e non me lo potevo permettere. Adesso, in teoria, chiunque potrebbe rubarmi l’idea. Sempre che qualcuno non lo stia già facendo Oltreoceano. Dico la verità: a volte mi prende un po’ lo scoramento e mi verrebbe voglia di emigrare di nuovo”.