
I bambini piccoli, la cura della casa e della salute, gli anziani malati: sono ancora faccende da donne nonostante i progressi nell’evoluzione del maschio italiano adulto e il lieve assottigliamento del gender gap. La mancanza del welfare dedicato alle donne, in Italia, blocca la crescita. Quante, valutato il costo/beneficio del lavoro, alla fine decidono di rimanere a casa con i figli penalizzando lavoro e autonomia personale e professionale? Dare la quasi totalità di uno stipendio a una baby-sitter, per almeno 12 anni, rende molto poco appetibile una vita lavorativa fuori dalle mura domestiche. O in alternativa decidono di rimandare la maternità finché non diventa poi molto difficile riuscire ad avere figli. Eppure quelle che invece non si rassegnano e vogliono conciliare tutto, con un coraggio da vere eroine della contemporaneità, si fanno comunque carico del doppio lavoro, riuscendo a delegare molto poco agli uomini della famiglia.
In Italia, nonostante tutto ciò, abbiamo un record: quello delle piccole imprenditrici, le lavoratrici a partita iva. Sono oltre 1,7 milioni e siamo certi che in molti casi dietro queste partite iva siano celati impieghi subordinati, eppure questo è un dato importante. Non ce ne sono così tante né in Germania, né nel Regno Unito. Sono dati forniti dall’Osservatorio Donne Impresa di Confartigianato. Sono soprattutto artigiane: 350mila donne che si trovano a fare i conti anche con le nuove tecnologie digitali (il 22% per migliorare la propria impresa) e quasi tutte maneggiano quotidianamente il web (73%) considerandolo una parte integrante del lavoro.
Anche Unioncamere, nel rapporto annuale in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha contato circa 300mila imprenditrici, cioè un quinto delle imprese italiane, che danno lavoro a 3 milioni di persone. E ha messo in evidenza come questo universo abbia rappresentato un motore durante la crisi economica degli ultimi anni. Le imprese femminili sono infatti cresciute più della media e sono caratterizzate da una forte spinta innovativa.
Un esercito di veloci e caparbie centometriste che corrono e vincono nonostante le cavigliere di piombo. Un esercito che, anche sotto il profilo anagrafico, si sta rigenerando (quasi 14 imprese su 100 sono guidate da una under 35) e, complice l’alto tasso di istruzione universitaria (una donna lavoratrice su 4 è laureata). E mentre, come dicevamo all’inizio, le nostre imprenditrici battono record positivi, la spesa pubblica per l’assistenza familiare, e quindi il sostegno soprattutto a loro, è ancora al 20esimo posto tra i 28 Paesi Ue.
Pensate a cosa potremmo fare se noi tutte avessimo a disposizione asili nido e voucher gratuiti per aiuti familiari come succede in Francia. Potremmo persino lavorare di più e meglio, innovare ulteriormente e addirittura ricominciare a fare figli senza bisogno di campagne per la fertilità.
Per avere un’idea della forza del contributo che le donne possono fornire alla crescita economica basti pensare che, secondo stime dell’International Labour Organization (ILO), al livello internazionale il potenziale produttivo sottoutilizzato riferito alle donne è del 50%, contro il più ridotto 22% riguardo agli uomini.
Per tutti questi motivi sarebbe il caso che la spesa pubblica per il welfare, sempre più ridotta, non fosse dedicata nella quasi esclusività alle pensioni e all’assistenza sanitaria agli anziani. Perché il primo investimento per far ripartire il Paese dovrebbe essere quello che metta le donne nella condizione di conciliare la vita con il lavoro. Ma non con interventi a pioggia per prestiti alle imprese femminili, bensì con piani strutturali che permettano di emanciparci dall’esclusività del lavoro di cura familiare. Allora potremo correre libere anche noi e trainare tutta la squadra.