
Trenta donne coraggiose che guidano una protesta in una cava. L’elmetto di sicurezza, le sciarpe alzate fino agli occhi, le voci gridano un disagio sociale che sembra non avere fine. Trenta nomi che ogni giorno fanno un lavoro fisico, faticoso, tradizionalmente riservato agli uomini. “Ma vogliamo essere chiamate tutte Maria. Abbiamo un nome solo, chiamateci così”.
Sono le minatrici e le operaie dell’Igea, una società partecipata della Regione Sardegna a rischio fallimento, che da mesi non ricevono lo stipendio. Per questo hanno iniziato la protesta, per il loro vitale diritto al lavoro. La scelta di quel nome, Maria, sembra quasi una preghiera, un’invocazione d’aiuto. Dallo scorso 28 novembre sono asserragliate nella galleria Villamarina nella miniera di Monteponi a Carbonia Iglesias.
La scelta di quell’unico nome è il simbolo della loro unione. Non esistono storie singole, non ci sono le esigenze di ognuna, ma quelle di tutte. Sono legate dalla difficoltà, sperano di essere legate anche dalle soluzioni e da un futuro migliore. Maria diventa così in unico momento una madre, una figlia, una moglie, una ragazza che ancora vuole costruire il suo futuro, ma forse non potrà farlo. Tra loro c’è anche una donna che durante la protesta allatta il figlio di 8 mesi.
Le giornate delle “Maria” trascorrono tra buio, umidità e le tante manifestazioni di solidarietà che sono arrivate dagli altri lavoratori, dai cittadini e anche dalla Chiesa: il vescovo di Iglesias ha celebrato una messa apposta per loro, l’occasione ha richiamato le prime telecamere. La copertura mediatica di questa protesta e di questo angolo di Sardegna, il Sulcis che ciclicamente viene dimenticato, va a singhiozzo, ma la lotta delle Maria continua. Da lì usciranno tutte insieme, altrimenti resteranno laggiù, sottoterra. Chiedono di riavere la loro dignità di lavoratrici, di poter tornare ad aiutare le loro famiglie “perché la donna è il fulcro della casa”.
“La nostra è una protesta storica. Non è mai successo che un gruppo di sole donne occupasse una miniera”, dice una di loro. “Volevamo dare un segnale forte perché ci sentiamo prese in giro dalla classe politica. Adesso chiediamo risposte concrete. La nostra terra, la nostra Sardegna non può morire così. Oggi nell’Isola la disoccupazione giovanile raggiunge il 70%”.
Lo scorso 4 dicembre, proprio nel giorno di Santa Barbara, protettrice dei minatori, la Regione ha promesso lo stanziamento di un fondo di 5,5 milioni di euro per il pagamento degli stipendi arretrati. L’assessore regionale all’Industria Maria Grazia Piras è entrata nella galleria assieme alle donne, ha stretto loro la mano per sancire la comunione di intenti nel trovare insieme una soluzione per l’azienda e hanno festeggiato, scambiandosi fette di torta.
Un primo traguardo, importante, che non ha comunque interrotto la protesta. Le “Maria” del Sulcis, le “irriducibili”, come le ha chiamate l’assessore Piras, restano nella loro miniera e continuano a combattere per un serio piano di rilancio aziendale e per un futuro in cui si possano ancora vedere degli orizzonti reali.
