
Quando al processo contro Chelsea Manning, la soldatessa americana transgender nota come la “talpa di WikiLeaks”, viene vietato ai giornalisti di usare registratori o di twittare, la reporter investigativa Alexa O’Brien si mette in testa di tenerne una cronaca fedele scritta a mano. In questo modo crea quello che oggi è l’unico archivio pubblico esistente e gratuito di quel processo.
Molly Crabapple, come accaduto ai pochi reporter arrivati sull’isola prima di lei, si trova in una situazione analoga quando riesce a ottenere l’autorizzazione di visitare la base di Guantanamo. Nei cortili è vietato fotografare per ragioni di sicurezza, anzi, come racconterà lei stessa in un pezzo lunare per Vice, è possibile fotografare ma soltanto da alcuni punti stabiliti dalle autorità – angolature cieche dalle quali non si vedono punti considerati sensibili ai fini della sicurezza.
Molly (bruna, trent’anni, Alice nel Paese delle Meraviglie punk) si accontenta, e dai frammenti surreali che le sono concessi – una foto col cellulare qui, una visuale còlta camminando che ricostruirà a memoria soltanto in seguito – prova a narrare l’impressione di compiere un crudele giro turistico guidata da un personale che si sente isolato quasi quanto i prigionieri che deve sorvegliare.
I processi che si svolgono alla base sono l’unica occasione per conoscere le vicende personale dei detenuti, uomini spesso innocenti che le operazioni anti-terrorismo post 11 settembre hanno congelato senza soluzione nel tempo e nello spazio giuridico. Anche qui è vietato registrare o usare il telefono. Ottocentesca, anzi, vittoriana nel tratto e nell’immaginario, Molly prende matite spesse e un blocco di fogli di carta e cerca di ritrarre gli imputati e il giudice come facevano i feuilleton di una volta.
Quello che le autorità di Guantanamo non avevano previsto era che il risultato potesse essere più reale della realtà; che un’illustratrice potesse, registrando con gli occhi e con le mani, raggiungere una potenza comunicativa che il rigoroso reporter dotato di tutti i permessi non avrebbe ottenuto. Nelle scene dickensiane di Molly c’è la sensazione di un luogo sospeso nel tempo, di uomini che trattengono e giudicano altri uomini identici a loro, di uno spaesamento kafkiano, di un’enclave chiusa dove la legge e le regole sono diverse da quelle del resto del mondo, e infine, una cronaca della realtà che contiene anche un muto commento morale.
All’udienza per uno sheikh di spicco, poiché le è stato vietato anche di disegnare i volti, Molly li sostituisce con tondi vuoti appena accennati. Il risultato è sconvolgente – l’umanità del tratto, i dettagli realistici degli abiti e delle tute carcerarie, e al posto dei volti questi tondi che trasformano le persone in un esercito di biscotti da cartone animato, fra i quali è difficile distinguere fra imputato e giudice.
Senza dubbio uno dei personal brand più riusciti dell’attivismo digitale, Molly ha però tratto – dalla scuola d’arte mescolata con il radicalismo che va dal tatuaggio alla graphic novel – una poetica antica e profondamente femminile; attraverso la rete, dove ha trovato un pubblico che la segue, la finanzia e fa il tifo per lei, Molly ha raggiunto una verità vecchia di secoli: il grigiore del potere, l’ottusità della burocrazia, la sostanziale eguaglianza sotto i tratti somatici e il colore della pelle, l’ingiustizia contro i più deboli.
Molly cita Goya nello stesso modo in cui Goya poteva citare violente tavole medievali – trovando la radice del sopruso e mettendocela davanti agli occhi attraverso, sì, la rapidità di un tweet o la bellezza digitale di un’impaginazione web, ma pur sempre come frutto del suo taccuino, della sua matita – in sostanza, della sua mano.
E la sua mano non sceglie a caso. Si mette a disposizione, si fa testimone, dei prigionieri di coscienza, specialmente delle donne, anche se questo significa fare un viaggio per ottenere una rapida visita in carcere con Cecily McMillan, l’attivista di Occupy Wall Street che sta scontando tre mesi di carcere per aver dato un calcio a un poliziotto che durante un corteo l’aveva bloccata da dietro afferrandole il seno.
La penna di Molly non è meno affilata della matita, come quando in un recente pezzo per Vice ricorda il piacere con cui da una parte le tv americane difendono le russe Pussy Riot e dall’altra la RT russa difende Snowden – a dimostrazione che ogni dissidente è bello purché non sia di casa nostra.
Ma è nel disegno che l’accusa morale di Molly lascia senza fiato, perché ci appare asciugato di ogni retorica, e perché lì Molly non si misura più con i suoi contemporanei, ma con una stirpe che va dai tardi illustratori della Divina Commedia ai muralisti degli anni Trenta, che sembrano tornare a parlarci con urgenza attraverso una reincarnazione digitale.
L’ultima impresa di Molly è di questi giorni, perché si è messa in viaggio per la Turchia, al confine con la Siria, insieme al giovane talento della socio-tecnologia Zeynep Tufeckci, nativa di Istanbul, che conosce chi alla scuola Salama ospita il progetto Zeitouna, un campus creativo per bimbi e pre-adolescenti fuggiti dalla guerra. Dirigenti e insegnanti mettono a disposizione di Molly tutte le pareti della scuola, che vengono imbiancate al suo arrivo. Molly ci mette quello che aveva già fatto quando, comprate migliaia di pennarelli con un’operazione di crowdfunding, si era chiusa in una stanza d’albergo di New York per la sua “Week in Hell”, dipingendo ogni centimetro dei grandi fogli di carta appesi a coprire tutte le pareti.
Una concentrazione assoluta, disegnando senza sosta, con un risultato straordinario in pochi giorni: i bambini si vedono letteralmente crescere intorno una foresta di segni, nero su bianco; figure più grandi di loro, come la tigre dal cappello a sonagli nell’atrio, o lunghe strisce che si snodano anche lungo il soffitto. Col naso all’insù, assistono alla vittoria onirica dei topi oppressi contro i gatti crudeli, che incorpora e vendica i racconti che Molly ha ascoltato da loro.
