
Ci sono voluti 25 anni di lavoro sul campo per capire che zero più zero non è sempre uguale a zero. La dottoressa Doretti l’ha imparato sulla strada, di notte, al telefono col maresciallo, in ambulanza allattando i figli piccoli perché non li lasciava neanche durante i turni d’emergenza. Zero è quello che spesso hanno a disposizione i medici dei nostri ospedali, coloro che sulle proprie spalle reggono intere unità sanitarie e curano tutti, indistintamente, per dovere e per rispetto del diritto alla salute. Ché non c’è bisogno di andare in Africa per trovare ospedali dove mancano le siringhe e dove l’ecografo è rotto da due anni. Succede anche a Bari o a Roma.
Vittoria Doretti si è laureata giovanissima, ha sempre lavorato e continuato a specializzarsi. È minuta, leggerissima, lavora sempre un po’ di più dei suoi collaboratori e la sua voce è sempre un po’ più bassa di quella del suo interlocutore. Eppure anche il questore la chiama capo.
Coordina la task force contro la violenza che è partita da Grosseto, dalla sua Asl numero 9, dove è dirigente anestesista. Fino a poco tempo fa lei e i suoi erano considerati visionari.
Ha messo a punto in quattro anni un protocollo di intervento che ora è diventato esempio nazionale, lavorando con una squadra composta da 40 persone tra personale medico e paramedico, forze dell’ordine, associazioni di volontariato, psicologi e assistenti sociali: è il codice rosa. Ne è nato anche un libro “Codice rosa. Il magico effetto domino” (Pacini Editore).
Una rivoluzione in un sistema sanitario parcellizzato e dunque carente nella catena di attribuzione delle competenze. La dottoressa Doretti è riuscita in un’impresa unica, partendo dalle “persone piccole” e arrivando a smuovere quelle grandi. Il 24 novembre a stringerle la mano all’Ospedale Misericordia ci sarà la viceministro Maria Cecilia Guerra, per dirle che tutta l’Italia vuole imparare da lei.
Come è nato il codice rosa e di cosa si tratta?
Per anni mi sono trovata a contatto con vittime di violenza, ho lavorato sulle emergenze, ho cominciato come guardia medica, poi tanto tempo in trincea nei pronto soccorsi. Ho capito che il problema dell’assistenza e dell’iter per le denunce partiva proprio da lì. Quando una persona si rivolge alla polizia o ai centri antiviolenza è perché ha preso coscienza del suo status di vittima. Ma sono la maggioranza i casi che non emergono ufficialmente. Manca il personale di primo soccorso preparato a riconoscerli e a fare rete con colleghi e forze dell’ordine per aiutare chi in quel momento è solo, debole e incapace di reagire. Il codice rosa è una procedura che attiva diverse professionalità in presenza di un paziente che potrebbe essere una vittima. Dal 2009, solo nella Asl 9, abbiamo formato 3.000 professionisti in grado di fronteggiare casi come questi. Ascoltare è la prima cosa che insegniamo.
Come si attiva la task force esattamente?
Siamo tutti collegati, io sono costantemente in contatto con carabinieri e polizia e con le associazioni. Abbiamo un gruppo su Whatsapp con cui parliamo quotidianamente. Siamo sempre pronti a intervenire. L’obiettivo è la massima esemplificazione delle procedure e la comunicazione tra le parti. Non vogliamo più permettere, ad esempio, che una persona abusata sia costretta a raccontare quello che ha subito a tante persone diverse, dagli infermieri ai medici fino alle forze dell’ordine. Non vogliamo che sia spostata in varie stanze dell’ospedale, non vogliamo che resti sola. Soprattutto non vogliamo più permettere che senta un operatore dirle “questo non è di mia competenza”. Ogni professionista deve essere in grado di aiutare la vittima e di rassicurarla. Tutti devono sapere un po’ del mestiere dell’altro, solo così tutti possono capire quali sono i ruoli e rispettarli, facendo da ponte tra l’uno e l’altro.
Come state diffondendo la costruzione delle squadre territoriali?
Stiamo tenendo corsi in tutta Italia, stanno per partire unità in Calabria, Puglia, Basilicata, Veneto. In Toscana il codice rosa è già una realtà in tutte le provincie. Abbiamo sentinelle sparse capillarmente a cominciare per esempio dalle farmacie, cui si rivolgono spesso persone che cercano cure veloci per lesioni e contusioni per evitare di andare negli ospedali. Sono molti i farmacisti che partecipano ai nostri corsi e con ottimi risultati, a loro volta poi formano altri colleghi. Per questo parliamo di un effetto domino che ci sta dando risposte incredibili da parte della popolazione. Nella nostra provincia tutti e 28 i comuni hanno firmato un protocollo per mettere a disposizione delle vittime di violenza quello che c’è, per esempio alloggi e strutture d’accoglienza.
Contro cosa combattete?
Contro la solitudine. La solitudine delle vittime in primo luogo. Quello che ci sentiamo dire più frequentemente dai pazienti è che si sentono soli e non hanno nessuno a cui rivolgersi. E poi combattiamo la nostra solitudine. La vera rivoluzione sta nell’aver creato un sistema che funziona perché ogni parte è strettamente correlata all’altra, affinché nessun operatore si senta più solo. In una squadra non conta tanto ciò che dai e neanche quello che ricevi, conta ciò che condividi.
Cosa succede in una stanza rosa?
Una stanza rosa è un posto speciale, non si chiama così perché è colorata di rosa. È uno spazio protetto, se ne può ricavare una in ogni ospedale. È un luogo dove vengono accompagnate le vittime e da dove non escono se non quando si sentono pronte. Sono gli operatori ad entrare, con cautela e rispetto, senza stressare la persona e in un atteggiamento di disponibilità totale. È bene che in ogni stanza rosa ci sia un computer per permettere alla vittima di sporgere denuncia direttamente. Gli agenti delle forze dell’ordine entrano nella stanza solo in borghese, per non creare disagio. In ogni caso non va fatta nessuna pressione rispetto alla formalizzazione di una denuncia, bisogna rispettare la volontà e i tempi di ognuna. Ora registriamo circa 500 casi di violenza ogni anno nella nostra Asl, fino al 2009 ne segnalavamo solo un paio: non li sapevamo riconoscere e trattare con le cautele che avrebbero meritato, e non c’era dialogo con le questure.
Non la scoraggia un sistema sanitario in grandi difficoltà generali?
Più impegno e meno sdegno, questo è quello che ci diciamo da anni. È così che siamo riusciti a mettere in moto una macchina incredibile. Ci sono persone di grande professionalità e affidabilità, riceviamo proposte di aiuto da tutti e tutti possono fare qualcosa per noi e per le vittime. Si fa con quello che si ha, anche quando sembra zero.
