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Elina Chauvet: migliaia di scarpe rosse in ricordo delle donne invisibili

Le calzature esibite dall’artista messicana sono diventate il landmark della lotta contro la violenza di genere. Un segno artistico che è anche un eloquente gesto politico

Come tante Berlino, prima del novembre ’89. La grande San Diego, la media El Paso, la piccola Douglas: città yankee che punteggiano il polveroso confine meridionale degli Stati Uniti e si specchiano nel loro doppio messicano. Tijuana, Juarez, Agua Prieta. Due centri che si guardano da una parte all’altra della cortina, aree metropolitane che entrerebbero l’una nell’altra se solo non le tagliasse in due quel complesso di mura, dissuasori del traffico in cemento armato pitturati di giallo, reti metalliche sovrapposte e srotolate per chilometri e check point pattugliati da cani nervosi: il border americano.

L’agglomerato urbano che formano El Paso e Juarez porta il nome confidenziale di Borderplex. Al di quà, sul suolo americano, c’è una città dotata di tutto quel che resta del sogno americano e anche di un aeroporto internazionale, per fuggire via, just in case. Ci abitano più di seicentomila persone, compreso lo scrittore Cormack McCarthy. Al di là del confine ne vivono il doppio, pigiate in un’area militarizzata dai narcos. Il posto più pericoloso del mondo, dicono, infestato da un migliaio di pandillas, bande che raccolgono decine di migliaia di piccoli, medi e grandi delinquenti. L’indotto del narcotraffico.

E poi ci sono le maquilladoras, stabilimenti dove si assembla di tutto: dai palloni da calcio agli ombrelli. Le aziende americane spediscono i prodotti oltre confine per essere completati lì dove il costo del lavoro è più basso e si lavora in regime di esenzione fiscale. Certo, ci sono le spese altissime della corruzione messicana, ma il personale è volenteroso e senza troppe pretese. Moltissime sono donne.

Tante non tornano a casa dopo il lavoro. Almeno quattrocento ogni anno a un ritmo costante da oltre 20 anni. Più di una al giorno. Quando i pandilleros hanno finito con una di loro spesso non restituiscono neppure il cadavere. Il 20 agosto 2009 l’artista messicana Elina Chauvet ha chiesto alle donne di Juarez di portare in piazza un paio di scarpe rosse di qualunque foggia per ricordare un’amica scomparsa. Ne ha raccolte ed esposte 33 paia: l’avvio del progetto di arte pubblica Zapatos Rojos.

Due anni dopo ha portato la sua installazione oltre confine, a El Paso, dai cugini fortunati, e ha scoperto che anche lì la violenza di genere produce donne invisibili. Nel 2012, grazie all’impegno della sua curatrice, Francesca Guerisoli, Zapatos Rojos è arrivato in Italia. Milano ha fatto da apripista, poi è toccato a Genova e via via a tante altre città. A Lecce sono state raccolte più di 450 paia. Oggi le scarpe rosse di Elina Chauvet sono il landmark della lotta contro la violenza di genere, utilizzate per accompagnare praticamente ogni pezzo di cronaca sul femminicidio. Qualche tentativo di imitazione e tanta attenzione, a punto che Elina ha preso un aereo ed è venuta in Italia per conoscere da vicino le ragioni di una risposta così forte delle donne italiane al suo progetto. Una risposta che non si è registrata allo stesso modo, con la stessa intensità, in altri paesi dove Zapatos Rojos ha attecchito. «Vado dove mi chiamano, è importante che le persone mi sentano vicina».

Quale impressione ha ricavato, durante il suo viaggio, della condizione femminile nel nostro paese?

Non ho avuto molto contatto con le donne italiane nelle loro case, ma ho visto qual è il loro posto nella sfera pubblica. Sono presenti molto meno nei lavori importanti e di responsabilità e sono meno apprezzate dei colleghi maschi.

Qualcuno incolpa di questo gli ultimi vent’anni di berlusconismo.

In Messico, pur con tutte le difficoltà che attraversa il mio paese, non abbiamo ancora avuto un presidente come lui. Capisco perfettamente che le donne si sentano discriminate. Che opportunità possono avere se uno dei vertici dello stato si è comportato così? Che protezione possono sentire, se lui è il primo a trattarle in quel modo?

E ora?

Ora è un momento in cui le donne italiane devono reagire. Il successo di Zapatos Rojos lo dimostra. Stanno chiedendo una reazione, la stiamo chiedendo tutte.

La forma di violenza cui fanno riferimento le donne che nel nostro paese partecipano al suo progetto spesso non è materiale, dunque è anche più difficile innescare una reazione unanime.

Tutte le violenze sono deplorevoli, terribili. Ora, mentre parliamo, stanno scomparendo donne in tutto il paese. In altre alcune città, come a Juarez, non ricompaiono neanche i corpi.

Ma qual è, provando a sintetizzarlo, il messaggio di Zapatos Rojos?

È come una rivolta. È un’urgenza. Per me è un veicolo di comunicazione della violenza fisica, psicologica e globale. È una chiamata a cambiare il pensiero.

La percezione oggi è che, almeno in Messico, le cose stiano lentamente migliorando.

Non direi: Enrique Peña Nieto può trasmettere un’apparenza di non essere machista ma in realtà lo è. Vede, ora in Messico abbiamo una sinistra falsa e una destra sessista. Anzi. La sinistra ormai è compromessa con la destra e ha smesso di essere una sinistra autentica.

La politica, il maschilismo, certo. Ma non crede che esista una parte di donne che utilizza il sesso per ottenere quello che altrimenti resterebbe precluso? Cosa pensa di loro?

Non penso niente. Molte ragazze usano il sesso in quel modo, con quel proposito. È una decisione personale che io non prenderei mai, ma credo che le donne siano sufficientemente consapevoli oggi da riuscire a valutare gli effetti dei loro comportamenti.

Certo, ma non pensa che il fatto che una donna possa ottenere qualcosa attraverso il sesso sia parte del sistema di violenza?

Sì, ed è un argomento molto complesso. Il maschilismo esiste grazie al sistema della tradizione. Però è arrivato quel momento, siamo arrivati a quel punto in cui la donna sta tornando ad essere oggetto di compravendita. Proprio per questo è nata l’idea di Zapatos Rojos, per civilizzare la coscienza delle donne, quelle che per loro fortuna non conosco la violenza e quelle che le sono sopravvissute.