
“In Italia lo sport non è uno strumento di integrazione, in particolare per le donne”. È netta l’opinione di Mauro Valeri, sociologo dello sport, autore e direttore dell’Osservatorio nazionale sulla xenofobia dal 1992 al 1996, e, dal 2005, responsabile dell’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio. in uscita per Fazi Editore il suo libro su Mario Balotelli.
Impegnato da sempre nel cercare di comprendere i fenomeni di intolleranza, si confronta continuamente con le federazioni nazionali e con le istituzioni sportive italiane. Ma soprattutto va a incontrare gli atleti, parla con i giovani, che vivono sulla propria pelle le enormi difficoltà dell’agonismo quando ancora non si ha diritto alla cittadinanza fino al diciottesimo anno di età, neanche quando si è nati e cresciuti qui.
“Chi dirige lo sport non ha ancora preso atto che siamo un paese di immigrazione. Abbiamo circa un milione di ragazzi stranieri, che frequentano le scuole con i nostri figli, fanno sport, ma non sono cittadini italiani se sono nati da non italiani, e quindi per loro tesserarsi e praticare l’agonismo è un’impresa quasi impossibile”.
Perché è così difficile tesserarsi con una federazione italiana per uno straniero?
Il Coni ha creato delle regole estremamente rigide che implicano la presentazione di documenti di difficile reperimento per i ragazzi. Spesso ci vogliono mesi per procurarseli, così i campionati iniziano, i ragazzi perdono le prime gare o partite, e alla fine rinunciano o si trovano fortemente penalizzati nelle competizioni.
Sarebbe possibile scrivere nuove regole?
Certamente, ma bisognerebbe volerlo. Le singole federazioni hanno una certa autonomia, ma anche sensibilità diverse in base alla cultura sportiva di riferimento. Il nuoto e il calcio sono sport molto chiusi, mentre abbiamo esempi di sport aperti e multirazziali come l’hockey su prato che proprio in questi giorni ha approvato lo ius soli sportivo, per cui la federazione considererà italiani a tutti gli effetti i giocatori di origine straniera nati in Italia. Questo provvedimento si applicherà sia ai minorenni che giocano nelle giovanili, sia ai maggiorenni ancora sprovvisti di cittadinanza. Anche la box si sta muovendo in questa direzione. Ovviamente però resta loro preclusa la partecipazione alla nazionale, perché per lo Stato comunque non sono italiani.
C’è però un rischio di “tratta sportiva” se si aprono le possibilità di tesseramento?
Non è certamente impedendo i tesseramenti che si inibisce la tratta degli sportivi, così come può diventare pericoloso facilitare la cittadinanza per meriti sportivi – disegno di legge di cui si discute nelle recenti legislature – perché questo premierebbe solo gli sportivi più meritevoli o più famosi. In realtà c’è piuttosto il rischio di tratta in uscita, cioè gli atleti di origini non italiana sono spesso richiamati a gareggiare per le nazionali dei loro paesi di provenienza. Stefano Baldini, ex campione olimpico e direttore delle nazionali giovanili, poco tempo fa ha denunciato l’impossibilità di far vestire la maglia azzurra a una ventina di promesse dell’atletica che il nostro paese rischia di perdere perché corteggiati dai rispettivi paesi d’origine.
E dopo il compimento dei 18 anni?
Spesso a quel punto è troppo tardi. Sappiamo che un atleta raggiunge il picco della sua forma fisica proprio intorno a quell’età. Ad esempio ha fatto scalpore, ed è stato anche oggetto di un’interrogazione parlamentare, il caso di Eusebio Haliti, splendente corridore e saltatore di origine albanese, in Italia da quando aveva 11 anni. Ha ottenuto la cittadinanza italiana solo un anno fa, perdendo di un soffio la possibilità di partecipare con gli azzurri alle Olimpiadi di Londra. Aveva più volte rifiutato le offerte della nazionale albanese, anche quando gli avevano garantito che avrebbe capitanato la squadra. Lui è rimasto fedele invece al nostro paese che non gli dava il documento di cui aveva bisogno e che non gli riconosceva i record nazionali che continuamente stabiliva. Ora ha 22 anni e il treno del successo probabilmente per lui è passato.
Perché per le donne non italiane lo sport è più discriminante?
C’è una forma di discriminazione doppia. La prima discriminazione che le atlete devono combattere è quella domestica, soprattutto se sono di origine islamica. Accettare che una figlia faccia sport a livello agonistico, per molte famiglie non è immediato. E poi le atlete donna ricevono compensi molto meno vantaggiosi dei loro colleghi maschi. Dunque, se si sommano le difficoltà della famiglia, più quelle del tesseramento, più i compensi scarsi, più la mancanza di tutele di welfare perché i contratti sono pensati sul modello maschile, e considerando la brevità di una carriera sportiva per motivi fisiologici (di età degli atleti in generale, ma in secondo luogo a causa di un’eventuale maternità), allora possiamo stare certi che in Italia Sognando Beckham (il film che racconta la storia di successo calcistico di una ragazza indiana immigrata a Londra, ndr) non sarebbe mai possibile.
