
Ci sono figure deputate più di altre a portare il testimone. Affidabili, scrupolose, predisposte per natura alla causa collettiva. Che in questo caso è quella di un teatro dalla lunga storia, che sta passando un momento di crisi. L’Eliseo di Roma, il più prestigioso teatro privato, all’onore delle cronache per lo sfratto recentemente eseguito e un passaggio di gestione tutt’altro che indolore.
Sono giorni difficili sia per chi lascia (la famiglia Monaci nelle persone del direttore Massimo e del presidente Vincenzo) sia per chi si insedia (Luca Barbareschi che si è presentato con un nutritissimo serbatoio di idee e promesse).
E sono giorni difficili per gli artisti e per il pubblico, che hanno pagato il fio di una stagione troncata sul nascere.
Dai quotidiani, dalla rete, con un tweet o dai profili di facebook, si sono levati commenti, opinioni, applausi e fischi. E ben pochi hanno rinunciato a dire la loro.
Luana Nisi lo ha fatto, mantenendosi salda su quel crinale sottile che corre tra discrezione e affetto, tra pudore e partecipazione sincera per le sorti di uno spazio che per lei fu una casa.
Lasciata sei anni fa, quando andò in pensione in qualità di responsabile dell’ufficio stampa, dopo trentasei anni di frastagliata carriera.
Luana, per qualcuno Luanina, per altri la Nisi, la mitica Nisi o semplicemente Lu, all’Eliseo arrivò giovanissima, poco più che ventenne.
Chi scrive l’ha conosciuta nel 1990, e Luana era una simpatica e accogliente signora che non faceva distinguo tra le grandi testate ufficiali e i ciclostilati caparbi redatti da ex studenti neofiti di esercizi di critica. Un peso una misura, con tutti leale, professionale, gentile.
Minuta, il viso allegro e sempre sorridente, i capelli scuri ricci ricci ora domati con un taglio netto molto bon ton, la incontriamo, manco a dirlo, nel foyer di un teatro, sedute al tavolino della caffetteria, tra scaffali di libri, un tè e un pasticcino.
Luana, raccontaci com’è iniziata la tua storia all’Eliseo.
Era il 1972 e il lavoro si trovava ancora con un’inserzione su un giornale. Io ero venuta a Roma da Lecce per studiare economia e commercio, ma volevo lavorare. Ho messo un annuncio sul Messaggero “ragioniera offresi”, e mi hanno chiamata per i registri dell’Iva. Il colloquio lo feci con Vincenzo Torraca, che era un ultraottantenne simpatico con gli occhi azzurri. Avrei poi saputo che era un giornalista antifascista che aveva rilevato la gestione del teatro nel 1936 e subito convinto Luigi Albertini, già direttore del Corriere della sera e proprietario dell’edificio, a ristrutturarlo. Il teatro così come è ora, con le due sale, piccola e grande, risale a quell’epoca e a quella ristrutturazione.
A quei tempi il teatro era diretto da una gerarca fascista.
Fernando Spernanzoni era il direttore delle due sale ed era infatti un vecchio gerarca fascista che però aveva aiutato Torraca, che era invece antifascista, a nascondersi in una delle stanze del palazzo. Anche Arnoldo Foà in quel periodo aveva fatto il ragioniere in teatro sotto falso nome.
Tu hai avuto modo di conoscerlo?
Sì, io sono stata asssunta nel ’72 e lui è morto nel 75. Era gentile e rigoroso, ma anche ironico. Ricordo bene il suo tono paternalistico quando mi diceva ‘allungati la gonna’. Erano gli anni settanta e io che avevo vent’anni portavo la minigonna. Con le mascherine era molto severo, teneva al decoro, dovevano avere le calze dello stesso colore e andare dal parrucchiere prima di ogni debutto. Però era comprensivo e le aiutava tantissimo, il teatro era la sua famiglia.
L’università l’hai fatta con Romolo Valli, che ricordo hai di quel periodo?
Meravigioso. Andavo in ufficio felice. Nel 1977 è iniziato un nuovo corso con la gestione di Giuseppe Battista e io dal ’79 sono passata in amministrazione, in particolare nella segreteria di Dino Trappetti che era l’ufficio stampa di Romolo Valli. Romolo Valli e Giorgio De Lullo erano i nuovi direttori della sala grande inaugurata con un Enrico IV di cui ancora oggi ricordo con nitidezza e commozione gli occhi e la voce di quell’attore – personaggio, mentre il Piccolo, nominato così nel ’76 (prima si chiamava Ridotto), era diretto da Giuseppe Patroni Griffi ed era stato inaugurato da Franca Valeri con Non c’è da ridere se una donna cade.
Quando hai avuto la certezza che quello fosse il lavoro della tua vita?
In quegli anni e anche grazie a molte persone che ho avuto la fortuna di incontrare. Per questo dico che mia università l’ho fatta con Romolo Valli, che purtroppo è morto troppo presto, nel 1980. Con lui preparavo i flani per la pubblicità sui giornali, le locandine, mi chiamava Luanina.
Gli altri?
La signora Paola, che era un’artista, una scultrice, e rispetto a Trappetti si occupava della parte più creativa dell’ufficio, le foto, i programmi, la rassegna stampa. Ecco, con lei ho inizaito a fare ufficio stampa senza saperlo. E poi Enrico Lucherini e Matteo Spinola, che erano consulenti e mi hanno insegnato a fare tredici cose contemporaneamente. Giuliana Poggiani invece, responsabile dell’ufficio stampa prima di me, era straordinaria nelle ricerche di archivio.
E siamo al 1985, l’anno in cui sei diventata titolare. Nuovi oneri, anche di immagine. Come sono cambiate le prime nel corso del tempo, il pubblico, il modo di presentarsi a teatro?
Una volta le prime erano un’occasione elegante, un rito anche per il pubblico, che era glamour e attento. Anche negli anni settanta, gli anni delle cantine, della contestazione, l’Eliseo ha mantenuto il suo allure di teatro elegante, con un pubblico borghese. Io, da parte mia, ero una ‘fanatica’ delle prime, cambiavo sempre vestito, mi divertivo ed ero molto brava nel riciclare.
I fan ieri e oggi: com’è cambiato il cameratinaggio?
Le tipologie e i comportamenti degli ammiratori sono sempre gli stessi, cambiano casomai gli strumenti e oggi, forse, potrebbero annunciarsi anche con un sms. Una volta però si misurava il numero di fan dalla quantità di fiori che gli artisti ricevevano, oggi se ne mandano meno. Io ho visto cesti di fiori splendidi destinati alle attrici ma anche agli attori. Una volta, in particolare, ricordo il corridoio di fronte ai camerini invaso da fiori su entrambi i lati e non si poteva nemmeno passare, tanto era forte l’odore. Valentina Cortese svenne due volte in scena.
Per l’odore dei fiori?
Ufficialmente sì. Si rappresentava Maria Stuarda, con lei e Rossella Falk.
Già, Rossella Falk. Fu anche alla direzione del teatro per un certo periodo. Cosa ricordi di lei?
Era una persona generosissima, gentile. Ricordo che per Applause, uno spettacolo che avrebbe debuttato al Sistina in cui doveva ballare, aveva fatto portare nel corridoio del teatro Eliseo una sbarra per gli esercizi di danza classica, e aveva cominciato a prendere lezioni. Era molto seria e aveva delle gambe bellissime. Arredava il suo camerino con molta cura. Sul suo tavolo dei trucchi c’era sempre una tovaglia molto bella, elegante e sobria. Il camerino di Valentina Cortese invece era tutto un merletto, dalla tovaglia alla tenda della finestra, che aveva portato con sé.
Eccoli, i camerini, luogo di fascino e di mistero
I camerini sono una camera di compensazione, di passaggio tra l’uomo-attore e il personaggio. Ogni attore ha i suoi propri modi di viverlo: la porta sempre chiusa o sempre aperta, gli arredi con pizzi e merletti o la nudità totale, i tavolini pieni fotografie, di creme, trucchi, profumi o la sola matita nera.
Un camerino spoglio che ti è rimasto impresso?
Quello di Gianni Santuccio, c’era solo un tubetto di fondotinta sul tavolo, nient’altro. Lo ricordo per via di una replica fortunosa de L’uomo dal fiore in bocca. Lo spettacolo avrebbe dovuto iniziare alle 20,45 ma lui alle 20,45, appunto, ha fatto il suo ingresso in teatro. Un salto in camerino, due manate di fondotinta sulle guance, al volo, ed è entrato in scena: un gigante.
Ti faccio tre nomi, dimmi la prima cosa che ti viene in mente: Valeria Moriconi, Anna Proclemer, Mariangela Melato.
Con Valeria avevo un rapporto bello, confidenziale, chiacchieravamo spesso e volentieri anche di politica. Di Mariangela Melato mi viene in mente il rigore, la precisione e ricordo che Anna Proclemer ascoltava tanta musica classica, era una donna molto colta e affascinante. Però per loro tutti gli aggettivi mi sembrano diminutivi.
E’ vero che gli attori sono capricciosi?
Sorvoliamo sui capricci, ma certamente hanno una volontà di ferro. Ho visto attori andare in scena con la febbre a 40 o con le ossa rotte. Carla Gravina ha recitato con una gamba ingessata.
L’Eliseo è stato anche il teatro di Eduardo, cosa ricordi?
Ricordo i suoi spettacoli nei primi anni settanta quando io ero appena arrivata. Gli esami non finiscono mai, Il sindaco del rione Sanità. E più tardi Le voci di dentro. Era il ’77, l’anno del suo matrimonio con Isabella Quarantotti, festeggiato con un ricevimento nel foyer del teatro a cui anche noi impiegate eravamo state invitate. Non era una cosa scontata. Degli spettacoli di Eduardo ricordo il pubblico in coda che arrivava fino in strada. Una situazione simile si è di nuovo verificata con la direzione condivisa di Umbero Orsini, Gabriele Lavia e Rossella Falk.
Parliamo di quegli anni, gli anni ottanta.
Sono stati anni d’oro. Il pubblico veniva anche due o tre volte a rivedere gli stessi spettacoli. I masnadieri, Il principe di Homburg, Non si sa come. Gli anni ottanta hanno registrato 15.000 abbonati annui. Fu poi lo stesso teatro a diminuire la quota a 12.000, per riservare dei biglietti per il botteghino. Erano i tempi in cui le compagnie decidevano le produzioni in relazione all’ospitalità o meno al teatro Eliseo che avrebbe garantito loro una quota certa e cospicua di abbonamenti.
Com’è cambiata la critica?
La critica purtroppo perde sempre più spazio nei media e non ci rimane più la memoria. Prima agli spettacoli si dedicavano pagine intere, venivano nominati tutti gli attori e capita di leggere vecchie critiche in cui attori gregari sono le star di oggi. Io ho imparato moltissimo leggendo le recensioni dei critici del passato.
Fammi qualche nome
Giovanni Raboni e Tommaso Chiaretti, con cui avevo un rapporto ragazzina-professore. Franco Quadri di cui mi è rimasto impresso lo sguardo sorridente, abbastanza strano per uno che dicono sorridesse poco. E ancora Dante Cappelletti, Roberto De Monticelli, Giorgio Prosperi, con cui riuscivo a parlare per un’ora filata di un solo spattacolo ed era ogni volta una lezione, e poi Renzo Tian, con cui ho anche collaborato per la realizzazione delle mostre all’Eliseo.
Il tuo teatro del cuore, intendo il genere
Io preferisco il teatro civile, d’impegno, di denuncia anche. Ho amato moltissimo la Rosa Luxemburg con Adriana Asti, un lavoro del ’76, o Madre Coraggio con Lina Volonghi, andato in scena all’Eliseo nel novembre del ’72, quindi uno dei primi spettacoli della mia vita. Più recentemente invece ricordo Rwanda 94, uno spettacolo- evento durato sette ore per ricordare il genocidio.
Sei ottimista sulla nuova gestione?
Sono fiduciosa e faccio il mio in bocca al lupo a Luca Barbareschi.
Un suggerimento?
Non me la sento di dare suggerimenti e consigli, ma visto che abbiamo parlato di memoria, mi piacerebbe che venisse valorizzato l’archivio, che è molto prezioso, oltreché vincolato dalla sovrintendenza archivistica per il Lazio.
