Cultura e spettacoli
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Antonietta De Lillo racconta Luca, esodato nella vita e nel lavoro

Con il film Let's go, presentato in anteprima in questi giorni al trentaduesimo Torino Film Festival, la regista e produttrice porta al cinema la storia del suo amico fotografo, operatore, scrittore, oggi “esodato” professionalmente ed emotivamente

Antonietta De Lillo e Luca Musella sono amici. Lei, regista e produttrice, con un film da poco uscito nelle sale (La pazza della porta accanto, su Alda Merini) e un altro in fase di montaggio (il film collettivo Ieri insieme, domani anche) e lui fotografo, operatore, scrittore, oggi “esodato” professionalmente ed emotivamente. Inizialmente, era stato Luca a pensare di fare un film su Antonietta, ma lei ha poi girato la cinepresa verso di lui ed è nato Let’s go, presentato in anteprima in questi giorni al trentaduesimo Torino Film Festival.

Ex “uomo del Mulino Bianco”, “compostamente di sinistra, compostamente padre e compostamente figlio”, Luca ha sceso rotolando la scala sociale, mentre la sua crisi personale e matrimoniale si andava ad annettere a quella economica del nostro paese e a quella culturale del nostro tempo, in un rovinoso – ma non certo isolato – effetto valanga.

Da cineasta quale è, però, a colpire Antonietta De Lillo, non è stata tanto la vicenda personale di Luca, sfortunatamente comune a molti, quanto il suo particolare punto di vista.

“Essendo un fotografo e uno scrittore, ha una capacità rara: quella di essere dentro, perché chiaramente è la sua storia, ma anche un po’ fuori; di avere uno sguardo che riesce, come fa l’arte, a raccontare come ci si sente. Si scopre così, secondo me, che in realtà il mondo intorno, in questo momento, è fragile quanto l’individuo, e non riesce a sorreggere una caduta, sentimentale o economica. Il suo racconto così particolare fa sì che molti s’identifichino nel suo stato d’animo, anche coloro che non sono in una situazione così estrema. Luca sì, è in una situazione estrema, perché ha perso tutto, il lavoro, i soldi, la famiglia, la moglie, e si è trasferito in una Milano con le luci spente, che, nonostante le copertine che ha fatto per l’Espresso e tutto il resto del suo lavoro, oggi non gli offre più niente. Ma la cosa sorprendente è che, anche quando racconta la cronaca del suo scivolare dalla borghesia al sottoproletariato, a vivere con i clandestini, Luca riesce a farci vedere anche il lato positivo di questo suo scivolare. Al punto che arriva a dire: se fossi rimasto ancora borghese, mi sarei suicidato. La sua gentilezza, così caparbia, la sua volontà, ci suggeriscono un atteggiamento: nonostante la situazione difficile, non lasciarsi andare alla rabbia. Che non vuol dire abdicare, ma, al contrario, non volergliela dar vinta. Luca è un combattente gentile”.

Con Il pranzo di Natale nel 2011, e ora con Oggi insieme, domani anche, hai prodotto e curato dei film collettivi che sembrano voler costruire un ritratto dell’Italia di oggi. Cosa cerchi in questo insolito metodo di produzione?

“Due cose. Innanzitutto, un nuovo modo di pensarsi autori, non chiuso, non in solitudine, infatti questi progetti presuppongono uno scambio, una capacità di ascolto. E poi, raccontare l’Italia attraverso più sguardi mi pare importante perché ormai ognuno si racconta la propria storia – lo dice anche Let’s go – e nessuno si prende più la briga di dirci: ma che stai dicendo? Le cose non stanno così. Se ci sono più occhi a guardare la stessa realtà, forse si può tornare al buonsenso e a una narrazione condivisa del nostro paese. Anche il ritratto di Luca doveva far parte di un film collettivo ma poi ha preso un altro spazio ed è diventato un film in sé.

Hemingway amava citare un motto spagnolo secondo cui, se in una persona c’è anche solo un grammo d’oro, ed è oro, quel grammo gli darà da vivere per tutto il tempo. La cosa triste della vicenda di Luca è che il suo oro nel nostro paese, non gli permette più di vivere come prima.

Luca però dice anche che per ora non è morto di fame, che è senza soldi però ha il tempo, il tempo di stare con le persone, quindi non ho una visione così scura di lui. Soprattutto non si arrende. Quello che il film racconta in maniera fortissima è una solitudine. Quando sei in difficoltà, in questo paese, sei completamente solo, e gli altri, o perché fragili o perché impegnati, non riescono ad aiutarti.

Anch’io dopo Il Resto di Niente sono stata ferma tanto tempo, poi però mi sono rimessa in moto e per questo sono fiduciosa che anche Luca possa riprendere il suo cammino di lavoro. Ma dobbiamo abbandonare questo senso di solitudine, perché riguarda tutti, anche me, nonostante in questo momento l’energia che ho usato per ripartire stia dando i suoi frutti.

La tua prima volta al Festival di Torino è stata nel 1993, con Promessi sposi. Oggi torni con Let’s go. Com’è cambiato il tuo lavoro in questi anni?

Il tempo non passa mai invano, oppure passa invano ma comunque passa. Quando ho visto il ritratto della Merini che avevo fatto 20 anni fa e quello, sempre su Alda Merini, fatto oggi, ho pensato: vabbè, dai, non sto invecchiando male.

Non sono una che vive per fare il cinema. Per me è sempre stato uno strumento, e mi piace il lavoro collettivo. Oggi le cose, però, sono cambiate. Il cinema per me è stato una grande salvezza, è diventato il luogo in cui appoggiare la mia sensibilità, il mio modo di essere, e ho capito che, in questo momento, molto più di prima, mi piace fare un cinema che sia utile a qualcosa.