
Dell’autobiografia tradizionalmente intesa, il libro di Violetta Bellocchio non ha nulla o quasi. Non è un resoconto di fatti, anche se i (mis)fatti non mancano; non è un elenco di eventi cronologici, anche se lo sforzo alla base dell’impresa è quello di recuperare un buco nella memoria largo due anni. Tra il 2005 e il 2007, infatti, la scrittrice è stata un’alcolista. Con Il corpo non dimentica (Mondadori, 2014) Violetta racconta la storia di questa dipendenza, muovendosi avanti e indietro nel suo tempo interiore, grazie a una capacità di scrittura in grado di trasformare il memoir in un racconto di fantasmi, in una lunga e dura seduta di terapia, e persino in una sincera e appassionante storia d’amore.
Joyce Carol Oates ha detto che scrivere è come spingere con la punta del naso un fagiolo sul pavimento. Costa fatica. È scomodo. Si preferirebbe (poter) fare altro. Perché, leggendo il tuo libro, mi tornava in mente questa frase?
Non lo so, sai? Per quanto Il corpo non dimentica si possa presentare come un libro faticoso, il mese in cui ho fatto il grosso del lavoro è stato forse il più piacevole della mia vita. Più scrivevo, meglio stavo fisicamente. E anche la “fatica” di scrivere si era ridotta a una questione di pelle.
Quando e perché hai deciso di raccontare tutta la verità? Lo hai fatto per te o per altri/e?
Alla fine ho raccontato “tutta la verità” solo per me, per cercare di vivere, se non bene, almeno un po’ meglio. Mi ha fatto bene, mi ha reso più gentile, più disponibile a conoscere il mondo fuori da casa mia. Certo, ho raccontato “la verità” sapendo che lo stavo facendo in un libro e non in una chiacchierata al bancone di un bar, e che quindi, grande o piccolo, ci sarebbe stato un pubblico in ascolto. La scommessa era dare al testo un piccolo scatto in più rispetto alla pura confessione, che comunque merita rispetto e attenzione.
Ci sono tre donne nel tuo libro. Ci sei tu, c’è “lei” e c’è Meredith, la tua sober coach. Si può dire che in qualche modo sono la stessa persona?
Beh, “lei” è la memoria di una parte della mia vita, che avevo provato a cancellare senza successo, e che mi si è rivoltata contro sotto forma di attacchi d’ansia nel momento peggiore possibile; oggi, di fatto, ho imparato a convivere con lei, e viceversa. Meredith si offenderebbe molto ad essere scambiata per una parte di me: le ho dato quel nome non realizzando che la sillaba “Me-” potesse creare un equivoco. Chi dice che gli scrittori capiscono i loro libri molto in ritardo rispetto ai lettori ha perfettamente ragione, almeno nel mio caso.
Il corpo non dimentica è l’esatto contrario di un libro scritto sotto pseudonimo. Non ti regala una maschera ma te la toglie. Che effetto fa?
Allora, io ero – e resto – una tra le persone meno adatte al mondo a scrivere un memoriale. So di non dare questa impressione, per chi guarda da fuori, ma sono molto riservata sulle cose che contano, belle e brutte, e si dà per scontato che la scrittura personale richieda una certa dose di esibizionismo. Però, ora che il libro esiste al di fuori del mio hard disk, ogni lettore può prenderlo con sé, decidere cosa gli/le piace, cosa vale anche per lui/lei tra tutto quello che ho raccontato. Da questo punto di vista il lettore si toglie la maschera insieme a me. Ed è bello. Molto.
L’ironia è un prezioso salvavita e una spezia fondamentale del tuo racconto. Che ruolo ha nella tua vita e nella tua scrittura?
Non posso rispondere: sono una di quelle persone a cui non hanno mai impiantato il chip dell’ironia (o del sarcasmo), e quando qualcuno mi parla penso sempre che vada preso tutto quanto alla lettera. Sono ancora viva nonostante questo handicap sociale, ma forse non mi vorreste portare in vacanza in voi.
Precedentemente, con Sono io che me ne vado, avevi seguito una strada diversa, quella di una narrazione non autobiografica. Ora anche la tua scrittura, pur restando molto ricca e originale, sembra essersi spogliata degli orpelli più esterni per farsi più attenta alla verità. Concordi? Ci sono elementi di continuità tra i tuoi due libri?
Il corpo non dimentica mi ha cambiato la vita. È una frase alla Oprah Winfrey, me ne rendo conto, ma è vera. Il libro mi ha cambiato la vita ogni giorno, mentre lo scrivevo, e continua a cambiarmela oggi, con ogni persona che mi legge, ogni persona che entra nella mia vita, poco o tanto, perché mi ha letto. Ecco, con il romanzo che hai citato questo non mi era successo. Ero contenta di averlo scritto, ci avevo passato sopra un buon arco di tempo, ma non l’avevo vissuto così. Forse Sono io che me ne vado era meno buono, e l’unico elemento di continuità è che i due libri sono stati scritti dalla stessa persona.
Cosa pensi che verrà dopo?
Sono curiosa di scoprirlo anch’io. Certi giorni penso che scrivere in prima persona mi abbia rovinato; adesso ogni voce narrante che posso usare, in un romanzo o in un racconto, mi sembra troppo vicina alla mia. Però forse la prima persona è l’unica voce “autentica” che potessi tirare fuori dalla mia scrittura. O la migliore in una serie di voci possibili.
