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Neda, un’artista iraniana a Roma. Nelle sue opere tante donne senza identità

Neda Shafiee Moghaddam è a Roma da 11 anni, torna spesso in Iran e racconta a Donneuropa come il distacco dal suo paese le abbia permesso di liberarsi da costrizioni di cui nemmeno si rendeva conto

Vive nel quartiere San Giovanni di Roma Neda Shafiee Moghaddam, ha un bambino piccolo e un marito italiano, conosciuto qui nel periodo in cui studiava all’Accademia di Belle Arti. Arrivata dall’Iran nel 2002 quando aveva 27 anni, per studiare e fare un’esperienza all’estero. “Chiedere un visto per studio era il modo più facile per uscire da Teheran”. Appassionata d’arte come molte delle sue coetanee, non è fuggita e non si sentiva oppressa.

Le è servito guardare da fuori il suo paese per diventare un’artista, ha dovuto liberarsi dei limiti per capire quanti ne aveva interiorizzati. “Ho scelto di lavorare sul corpo e sul viso delle donne perché soltanto arrivata qui in Italia mi sono resa conto che a Teheran mi autocensuravo. Dipingevo da quando avevo 13 anni, ma mi ponevo dei vincoli espressivi, semplicemente perché sono cresciuta senza sviluppare una coscienza critica”.

Le tue opere non sono realistiche, sono volti e corpi velati, sembrano quasi sagome, come se non avessero identità. Perché?

Le mie donne hanno sempre il velo e quando non ce l’hanno comunque non hanno i capelli. Potrebbero anche sembrare uomini. È un tipo di immagine con cui dovevo fare i conti, per me è stata una forma di autoterapia. Ho esplorato i miei tabù con i miei quadri e le sculture, tabù che mi ero imposti da sola perché sono cresciuta in un ambiente in cui un certo modo di vivere era, ed è, normale.

Quali sono le cose che non facevi, le sensazioni che non provavi, e di cui ti sei resa conto solo quando sei andata via?

Dirò una cosa banale: il vento sul collo. Solo quando lo provi per la prima volta capisci cosa non avvertivi. È una sensazione particolare.

Molte donne portano il chador in Iran? Esistono modi alternativi di portare il velo?

Non tutte portano il chador. Ma il velo è comunque obbligatorio. È divertente vedere come le giovani abbiano trovato modi di spostarlo molto indietro, di portarne dei tipi colorati, così come di indossare camicette un po’ trasparenti e strette. Trovano modi di esprimere la propria femminilità in modo alternativo rimanendo nei limiti formali della legge. Sono ragazze coraggiose, spesso vengono fermate dalla polizia che intima loro di “sistemarsi”.

Le sue opere potrebbero essere esposte in Iran?

Non tutte, alcune potrebbero violare le regole. Il nudo, ad esempio, è proibito. Tempo fa una galleria di Teheran mi aveva chiesto di fare lì una mia mostra, ma ho evitato per paura di trovarmi nei guai. Potrebbe sembrare eccessivo, ma è meglio essere prudenti.

Esistono forme di arte pubblica che sono istanze rivoluzionarie, pensa che siano un mezzo utile anche contro le discriminazioni di genere?

Certamente sì. I murales sono una forma di comunicazione verso tutti, per esempio. Sono realizzati da artisti che devono stare attenti a non farsi prendere, ma questo succede anche in Italia. I giovani iraniani sono molto bravi a tenere comportamenti al limite della legge senza farsi beccare. È molto bello respirare il fermento dei giovani.

Sono molti i giovani che si avvicinano all’arte in Iran?

Da noi il 75% della popolazione ha meno di 30 anni, sono tutti molto motivati nell’avvicinarsi a diverse forme di arte, compreso il cinema. C’è un gran fermento. Sono questi giovani che spingeranno il cambiamento. Mio figlio lo farei crescere a Teheran, lui adora andarci, lo facciamo spesso, almeno due o tre volte l’anno.